A rileggere i saggi contenuti in questo volume, a distanza di un secolo, si resta sorpresi di come un personaggio di così alta levatura e matematicamente assai sofisticato, in grado di dettare e imporre il suo stile ai matematici del secolo successivo, approcci tali problemi in modo così semplice e con uno stile così amicale. Ai nostri occhi, così abituati a formule altisonanti e a concetti astrusi che ciclicamente sembrano contraddirsi l'un l'altro, le sue considerazioni didattiche possono apparire, nella loro semplicità, fuori moda e persino ingenue. E tuttavia i cardini della sua pedagogia sono pochi, chiari e semplici. E sono magnificamente riassunti nella conclusione del saggio sui giochi matematici. Vi si legge: «La differenza fra noi [insegnanti] e gli allievi affidati alle nostre cure sta solo in ciò, che noi abbiamo percorso un più lungo tratto della parabola della vita. Se gli allievi non capiscono, il torto è dell'insegnante che non sa spiegare. Né vale addossare la responsabilità alle scuole inferiori. Dobbiamo prendere gli allievi come sono, e richiamare ciò che essi hanno dimenticato, o studiato sotto altra nomenclatura. Se l'insegnante tormenta i suoi alunni, e invece di cattivarsi il loro amore, eccita odio contro sé e la scienza che insegna, non solo il suo insegnamento sarà negativo, ma il dover convivere con tanti piccoli nemici sarà per lui un continuo tormento».
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